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Infermieri. Nonostante tutto.

Di Carlotta @pedandstom

Ci sono giorni in cui ti chiedi perché.
Perché hai scelto questa strada.
Perché continui a percorrerla, anche quando…
il peso sembra eccessivo,
il riconoscimento scarso,
il tempo insufficiente.

Essere infermieri oggi vuol dire molte cose.
Vuol dire umanizzare la cura in un sistema che spesso spinge alla standardizzazione.
Vuol dire mettere il cuore dove a volte c’è solo un protocollo.
Vuol dire scegliere, ogni giorno, la relazione con l’altro.

L’altro,
chiunque esso sia,
comunque stia,
e qualunque sia il suo ruolo.

Nonostante tutto.

Nonostante il salario che non rispecchia né la responsabilità né l’impatto del nostro lavoro,
nonostante un burn out che aleggia spesso come un’ombra silenziosa dietro la porta del turno,
nonostante la fatica di una formazione continua, necessaria, ma spesso affrontata nel tempo libero,
nei ritagli di vita.
Nonostante la stanchezza emotiva del dover “reggere” TUTTO:
l’ansia dei familiari,
le incomprensioni con l’utenza,
il dolore che passa attraverso i nostri occhi e si deposita nel nostro petto.
Nonostante la frustrazione del non avere il tempo che vorremmo dedicare davvero al paziente, alla persona.

Eppure, ci siamo.
Ci siamo quando una mano si tende e noi la stringiamo;
quando una madre, in silenzio, ci guarda e trova in noi un punto fermo;
quando un bambino sorride nonostante l’accesso venoso nel braccio;
quando una carezza sulla fronte vale più di mille farmaci;
quando il nostro esserci fa la differenza, anche se nessuno lo scriverà mai da nessuna parte.

Siamo professionisti, certo. Ma non solo.
Siamo presenza.
Siamo ascolto.
Siamo quel confine delicato tra la tecnica e l’empatia, tra la scienza e il cuore.

In questa professione si entra pieni di ideali, e spesso ci si scontra presto con la realtà:
turni massacranti, organici insufficienti, burocrazia asfissiante.
Ma poi accade qualcosa – un grazie sussurrato, una lacrima condivisa, una guarigione che sentiamo anche un po’ nostra – e allora ricordiamo.

Ricordiamo perché abbiamo scelto!

Non per salvarli tutti, ma per esserci.
Per fare la differenza, una persona alla volta.
Perché prendersi cura è un gesto rivoluzionario, oggi più che mai.
Perché, nonostante tutto, è qui che sentiamo di voler stare, un senso di appartenenza naturale.

Siamo infermieri.
Con le nostre fatiche, le nostre notti insonni, le nostre cicatrici.
Ma anche con la nostra passione, la nostra forza silenziosa, la bellezza di un lavoro che è molto più.

E allora sì: lo rifaremmo.
Senza illusioni, ma con la consapevolezza profonda che, anche se il mondo non sempre lo vede,
noi lasciamo un segno.
Ogni giorno.
Nonostante tutto
.

E forse, quello che ancora manca davvero è uno sguardo che ci riconosca.
Un riconoscimento sincero, non solo nei momenti di crisi o nelle giornate dedicate.
Perché troppo spesso l’opinione pubblica non sa chi siamo davvero.
Non sa quanta competenza c’è dietro a un gesto che sembra semplice,
quanta formazione, quanta scelta quotidiana.
Non sa che dietro al camice non ci sono solo mani che eseguono, ma teste che pensano,
cuori che sentono, anime che resistono.

Abbiamo bisogno di qualcuno che ci racconti.
Di qualcuno che parli per noi, anche nelle stanze dove si decide, dove si scrivono le leggi, dove si plasma il futuro della sanità.
Abbiamo bisogno di essere rappresentati da chi sa cosa vuol dire “esserci”, nei corridoi di notte, nelle stanze piene di attese, nelle urgenze improvvise.
Da chi ci conosce non solo per sentito dire, ma per vissuto condiviso.

Sogno un tempo in cui non dovremo più spiegare quanto valiamo.
In cui dire “sono un’infermier*” basterà a raccontare tutto.
Sogno un tempo in cui la nostra voce non sarà flebile, ma parte del coro che guida il cambiamento.

E nonostante tutto, continuo ad amare profondamente questa professione.
Perché, anche se a volte pesa come una seconda pelle, ha la leggerezza delle cose che ti rendono viva.
Perché non potrei fare a meno del suo senso, della sua verità,
della sua irripetibile bellezza.

E sì, lo rifarei, è la mia scelta quotidiana.

Rifarei ogni passo, ogni turno di notte, ogni dubbio affrontato.
Perché, nonostante tutto,
ci sono momenti che valgono più di mille fatiche.
Un sorriso che nasce dove prima c’era solo paura,
un “grazie” sussurrato da chi non ha più voce.
Il battito rallentato di una mano che si affida alla tua,
il privilegio immenso di esserci quando tutto cambia,
quando inizia o finisce qualcosa.

Lo rifarei perché nessun’altra professione mi avrebbe insegnato così tanto sull’essere umani.
Sul limite, sulla fragilità,
ma anche sulla forza nascosta in ognuno di noi.
Perché ogni paziente è una storia
che entra nella tua vita, anche solo per un attimo,
e qualcosa lascia.
E se vuoi, qualcosa lasci tu a lui.
Perché noi siamo lì,
dove si incrociano la paura e la speranza, il dolore e la rinascita.

In un’altra vita, rifarei l’infermiera perché è qui che si tocca la vita nuda,vera, senza filtri.
Si impara ad ascoltare davvero, a guardare negli occhi, a capire il non detto.
Si impara che la cura non è solo fare, ma essere.
Essere presenti, essere affidabili, essere umani.

E allora sì, lo risceglierei.
Nonostante i limiti. Nonostante le fatiche.
Perché le gioie che dà non le trovi altrove.
Perché prendersi cura, davvero, è uno dei gesti più rivoluzionari e belli che si possano compiere.

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